7 giugno 1998, se gli eroi come dice Guccini rimangono sempre giovani e belli, fa specie parlare di Pantani e pensare che stiamo raccontando un qualcuno già andato via.
Marco Pantani, d’altra parte, si può anche fermare al 1998 per far passare la grandezza che lo fatto diventare passione, positiva e negativa, tanto che è facile sentire in giro, dopo Pantani il ciclismo non lo seguo più.
Quel Giro 1998, che si concluse il 7 giugno, Marco lo vinse prima demolendo Zulle, poi, nel duello a due, di sguardi, su Montecampione, staccando Tonkov e l’incubo della cronometro.
Uno scontro alla Sergio Leone. Loro due. Il caldo dell’asfalto. Oltre trenta gradi.
Un muro di cemento era lo sfondo. Pantani che attaccava. Tonkov che teneva e fisso, osservava la ruota posteriore dell’altro. Via così, per ppendenze e pendenza, per chilometri e chilometri. Poi, “vai marco, o salti tu o salta lui.” La differenza è stata quella. Mentre Tonkov misurava la sua resistenza sulla ruota dell’altro, Marco contemplava il destino di poter saltare, e con esso, la capacità di andare oltre.
Proprio questo è il lascito di poesia che Marco Pantani ha lasciato nel ciclismo. L’oltre.
Pantani non saltò, come Tonkov mollò.
Il giro fu vinto lì. Di quella tappa finale rimane l’immagine. Un ciclista a braccia aperte. Crocifisso, occhi chiusi, sfinito. Sfinito, certo di non aver dato tutto, anzi, di essere andato oltre.
In quell’oltre dove ancora sta, Marco Pantani.