Alla scoperta del Ponte d’Arena… e di ciò che è stato

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MONZA – Ancora due passi immaginari in città in compagnia di Stefania Castiglione. Nel viaggio virtuale ci accompagna alla scoperta dei luoghi meno noti e di quelli più frequentati. Oggi la tappa è al Ponte dell’Arena. Lo riconoscerete facilmente.

Camminiamo ogni giorno sulla storia e forse non gli diamo il giusto peso. Sul ponte romano costruito 2000 anni fa oggi noi sorseggiamo un caffè, compriamo un giornale o mangiamo una briosche, mentre giovani innamorati si scambiano i loro primi timidi baci.. I quattro leoni posti a guardia di quello ottocentesco ci intimano di non scordare che lì sotto esiste ancora qualcosa di “ingegnoso”. Il suo nome è ponte d’Arena.

Qualcuno ha in passato giustificato il nome immaginando nei dintorni un’ arena per spettacoli aperti alla cittadinanza, in zona Tribunale. Tale tesi non troverebbe ampia conferma visto che Monza (Modicia) non contava tantissimi abitanti da averne una. Inoltre i romani, tecnici precisissimi, non avrebbero mai costruito un tale edificio a ridosso del fiume, il terreno ne avrebbe risentito donando una instabilità al sito.

Rimane quindi l’ipotesi della “arena” intesa come “sabbia” da trovare sul letto del fiume. Come si presentava questo ponte? Era lungo 70 metri e largo 4,72 intervallato da 8 ampie arcate, poiché il Lambro era un fiume a carattere torrentizio, cioè la sua portata , maggiore di oggi, aumentava soprattutto con le precipitazioni. La struttura aveva una doppia corsia, vuol dire che vi era abbastanza spazio per essere attraversato da carri sia in entrata che in uscita dalla città. Le ultime arcate si stima siano sotto il tabaccaio di via Vittorio Emanuele.

Sembra di sentire il rumore delle ruote che scorrevano veloci sulle pietre arrotondate.
Quanto tempo abbiano impiegato non si sa ma basti immaginare che il lavoro era molto lungo.

Bisognava scegliere un terreno con un corso d’acqua, deviare quest’ultima con chiuse e canali, scavare per costruire le fondamenta e innalzare i primi pilastri seguiti da incastellature in legno che permettevano di appoggiare man mano le pietre già lavorate a scalpello.

L’ultimo pezzo era la chiave di volta, elemento fondamentale al centro dell’arco che permetteva di scaricare il peso del ponte a terra e sostenerlo. Il tipo di arco scelto fu quello a tutto sesto, importato dagli Etruschi che permetteva di aumentare la luce e moltiplicarne il suo uso all’infinito come per gli acquedotti. La pietra fu scelta perché più resistente al passaggio di carri con merci.

L’arte di innalzare i ponti era presso i Romani “sacra” e chi sa se il termine “Pontifex”, “ Pontefice”, non derivi proprio da qui, del resto il Papa è colui che crea “ un ponte tra noi e il cielo..

 

Stefania Castiglione
(con la collaborazione di un monzese doc)

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