La diffusione della pandemia da Coronavirus ha travolto le nostre esistenze, trascinandole in un vortice inaspettato e pericolosamente incerto di eventi.
L’entrata in scena di questo ormai più che noto virus nelle nostre vite, ha portato con sé una serie di sconvolgimenti e di cambiamenti, di vario genere, ai quali ora rispondiamo con falsa fermezza e serenità tramite la consueta frase “ormai ci siamo abituati”.
Ma abituarsi non significa necessariamente accettare di buon grado le novità che interessano la nostra quotidianità e la nostra esistenza. Esistono cambiamenti ai quali non ci abitueremo mai del tutto. Sconvolgimenti che continueranno a lasciarci con quel sentore amaro in bocca.
E anche se abbiamo imparato a sorridere con gli occhi e a comunicare attraverso la mascherina. Anche se igienizzarci le mani ogni volta che usciamo di casa può solo farci bene. E anche se i bambini, perfino quelli più piccoli, hanno imparato a vivere la scuola diversamente, con i banchi distanziati e tutte le norme igieniche del caso. Esistono cambiamenti e, soprattutto, distanziamenti ai quali dobbiamo abituarci per forza, ma che non riusciremo ad accettare mai con facilità.

E queste sono le conseguenze sociali peggiori che il Coronavirus ha portato con sé. Quei cambiamenti, quelle tracce del suo passaggio, di cui ci rendiamo conto soltanto quando finiamo per sbatterci la testa contro. E il dolore dell’impatto è sempre più forte di quanto si possa immaginare.
Ce ne si rende conto una volta varcato il cancello dell’ospedale.
Il posteggio auto, quasi sempre colmo di macchine, tanto da rendere ardua l’impresa di trovare un parcheggio libero, è ora deserto. Qualche auto posteggiata qua e là, come un fiore robusto e resistente che spunta tenace tra i granelli di sabbia. Affrontando l’aridità del terreno e fiorendo alla luce cocente e apparentemente avversa del sole infuocato.

Per un istante, uno soltanto, ci sentiamo fiori anche noi. Fiori coraggiosi che affrontano le avversità e l’aridità del suolo, e che riescono con tutte le loro forze a emergere dalla sabbia e a respirare a pieni polmoni. Lo sguardo fiero puntato verso il cielo terso.
Ma la verità è che quella desolazione non fa altro che ricordarci che siamo lì, in quel malinconico posteggio d’ospedale, soltanto perché dobbiamo, perché ne va della nostra vita, di quella delle persone che amiamo. Altrimenti anche noi, come quel vuoto posteggio continua a ricordarci, staremmo parcheggiando da tutt’altra parte.
Ma in questo momento, per qualche inspiegabile disegno del destino, siamo fiori. Fiori nati nel deserto, sbocciati per combattere le avversità e in esse fiorire.

E allora superiamo la struttura “provvisoria” adibita a centro tamponi per la diagnostica dell’infausto Covid-19. Ci lasciamo alle spalle i lembi di quella tenda che fluttuano al passaggio del vento…chissà forse vorrebbero scappare anche loro, volare liberi nel cielo e allontanarsi verso paesaggi più lieti. E varchiamo la soglia dell’ospedale.
Ci siamo. Abbiamo sbattuto dolorosamente e inaspettatamente la fronte contro uno dei cambiamenti più violenti e tristi che il Coronavirus ci abbia imposto.

Corsie di reparto vuote. E non perché non ci siano malati, ma perché sono tutti nelle loro stanze, attenti a non varcarne la soglia se non è strettamente necessario, con le mascherine a protezione del volto…ma a questo siamo “abituati”…in attesa della visita dei familiari.
Ecco, è questa la realtà alla quale non ci abitueremo mai. È questa la realtà che impariamo a conoscere solo quando ci siamo dentro, perché qui dentro ci siamo inevitabilmente caduti. Quella realtà fatta di permessi per poter andare ad abbracciare le persone che amiamo ricoverate in ospedale. Permessi che, una volta ottenuti, ti fanno sentire come un vincitore dopo aver scalato la montagna più impervia. Quella realtà fatta di camicioni e di cuffie, di abbracci che vorrebbero essere più stretti, più lunghi…più liberi.
Una realtà con la quale non avremmo mai voluto confrontarci in primissima persona.

Ma siamo fiori. Fiori nati nel deserto, destinati a combattere contro le avversità e a scavare tra la sabbia per trovare l’aria. E respirarla. Ancora e ancora.
Siamo fiori destinati a bucare il terreno e a ergerci fieri verso quel sole che brilla ancora. Brilla sempre, nonostante tutto.
Francesca Motta