Gianni Bugno a Benidorm: il capolavoro del poeta.

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Gianni Bugno
Gianni Bugno

Gianni Bugno a Benidorm.

Il mondiale spagnolo del 1992 era, per Gianni, la fine di un anno stregato, difficile. Sembrava che la parabola del suo enorme talento avesse preso inesorabilmente la direzione verso il basso.

La storia di Gianni Bugno la si conosce bene. Un talento smisurato, enorme. Ma una testa da uomo, non da campione. Un ciclista, che in corsa, si faceva domande sul senso di quel era, e non puntava dritto la vittoria. Vincere per Gianni era una delle tante espressioni, non il fine unico.

Per dirla con una battuta in voga in quegli anni: “Se Bugno avesse la testa di Chiappucci sarebbe un altro Merckx.” Una battuta magari anche giusta. Resta il fatto che il ciclismo è vero quando è sport di uomini, non di cloni.

Gianni Bugno viene da Monza. Da una carriera giovanile da predestinato. E da una carriera professionistica enorme, ma non , a numeri, quanto avrebbe potuto essere.

Chi, del ciclismo attorno al nuovo millennio, può dire di aver mostrato quello che Gianni ha fatto vedere nelle classiche e nei grandi giri? Chi può vantare due Mondiali vinti in volata, un Giro stravinto ovunque e quelle magnifiche tappe di montagna al Tour?

Eppure…. In Gianni, nei momenti giusti, c’era il senso dell’invincibilità. Ma accanto anche quello delle domande.

Questi termini, sommati, fanno l’uomo. Cosa vuoi di più da raccontare?

Prendi Benidorm. Gianni veniva da un anno in maglia iridata corso con poche luci e tantissime ombre. Niente classiche. Niente Giro. In un inizio di “concezione scientifica” del ciclismo, aveva puntato al Tour, deludendo. “E’ finito” sentivi dire dai cattivi. “Chi lo capisce?” sentenziavano i buoni.

La sensazione che in Spagna, al Mondiale, su di lui, si poteva contare poco.

Questa sensazione, alla fine liberava Gianni dal peso di dover vincere. Era libero di scivere quello che voleva. E davanti al disfacimento progressivo della squadra italiana, con il solo Giancarlo Perini a fare da scudiero, davanti ad una Francia enorme, tutta al servizio in treno del giovane Jalabert, a Benidorm Bugno scrisse una delle sue poesie ciclistiche più belle.

” La sua storia era piena di grandi domande. Troppe incertezze per combinarle ad una classe come la sua.

Lui, Gianni Bugno, campione atipico, che a volte sembrava perdere la classe in un labirinto di domande, era lì con gli ultimi cinque chilometri da spendere in un paesaggio indolente, colli brulli, cespugli e pietre.

E sulle cime intorno alla strada, montati su teloni pubblicitari, le sagome pacchiane di tori… macchine e bibite colorate.

Quello strano capitano dagli occhi azzurri e lo sguardo dolce era lì… avvolto di caldo… con un solo compagno che aveva speso molto più di se stesso per lui.

I francesi invece erano quasi al completo… con un giovane velocista… Jalabert… campione annunciato da portare semplicemente all’arrivo.

Lui… l’italiano… non era un velocista. Lui era un fuoriclasse che per cinque minuti della sua vita si lasciò dietro le domande.

Mise la mano al telaio… tirò giù il rapporto e partì.

Il giovane francese… il velocista… arrancò su quel rettilineo pianeggiante e lucido d’afa per non disperdersi… e fece fatica a stare a ruota anche mentre l’italiano alzava le braccia al cielo.

Intanto… dal traguardo… qualcuno faceva di quell’istante una foto da leggenda… appena sporcata… sullo sfondo dalle sagome di tori… macchine e bibite colorate.

Peccato oggi il ciclismo scriva poche poesie

Altra roba, oggi, il ciclismo, rispetto a quello dei ricordi.

 

 

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