Maldini. 26 giugno 1968: parola di papà Cesare «La storia calcistica è sempre stata composta da cicli. Talvolta ad uno buono ne succede uno migliore. Ma può accadere anche il contrario.»
E’ così, il correre del calcio lo puoi leggere alla Vico: una serie di cicli che si succedono come libri su uno scaffale.
Un alternarsi di generazioni, di passaggi, di paesaggi e se poi i protagonisti di epoche successive sono un padre ed un figlio, il cerchio dell’esistenza umana si chiude.
Nel panorama sportivo italiano la successione padre-figlio più di sostanza è quella dei Maldini.
Il primo è stato Cesare, protagonista da Coppa dei Campioni e da Nazionale anni sessanta, dotato di una personalità talentuosa ma anche portatore di una poetica che a volte lo faceva apparire svagato, tanto che per le sue “assenze” la stampa si inventò un neologismo: “maldinate”.
Cesare è un vertice del triangolo (gli altri sono Trieste e Nereo Rocco) che contribuì a costruire il primo grande Milan europeo.
Fu nella città carsica che un ragazzino che portava il nome dei grandi romani cominciò a calciare un pallone di cuoio. Era bravo tanto che, proprio nel 1953, nella città baluardo di “italianità” sia durante l’occupazione Jugoslava che in quella alleata, debuttò in A.
Guida tecnica della squadra era Nereo Rocco, un ex calciatore da nazionale, padrone di una macelleria accanto al porto.
Più avanti, quella triestinità si proietterà nella Milano anni sessanta, con Maldini e Rocco che si ritroveranno in rossonero (Cesare che era approdato sotto la Madonnina come top del mercato 1954, fortissimamente voluto da Guttmann, magiaro che di Trieste amava gli umori mitteleuropei e il calcio). Il punto più alto dello spirito “triestin-rossonero” lo si ebbe nella torrida serata londinese del 22 maggio 1963, quando in una Wembley gremita sotto gli occhi un po’ commossi del “paron” Cesare solleverà la prima Coppa dei Campioni.
Maldini, oltre che quello del “nobile capitano” assecondò perfettamente, seppur in altro ruolo, lo stile del “difensore moderno”: il libero.
Non un “pedatore” ma un giocatore capace di uscire dall’area a testa alta quanto i migliori centrocampisti, cosa inimmaginabile fino ad allora in un calcio popolato dai “killer” argentini, oriundi e non. Maldini insomma poteva sembrare troppo bello per essere vero in un’epoca comunque non ancora pronta all’estetica in zona difensiva e fu proprio questa tendenza all’eleganza la vera essenza delle “maldinate” che comunque furono solo una virgola poetica di una carriera impressionante: 347 partite in serie A, quattro scudetti e una coppa dei campioni con 22 presenze in nazionale.
E a dire quanto quello “stile pallonaro” fosse avanti, basta la testimonianza di Gianni Brera che nel suo libro “I campioni insegnano il calcio” si sovrappose all’io del centrale triestino, spiegandolo: “A me, Cesare Maldini, triestino, padre di famiglia, si rimproverano le maldinate. Hanno creato un vocabolo per me. Io non sono nato poliziotto nè sbirro e non so far male a nessuno. Uso il fioretto: entro sul tempo; raramente picchio concludendo il tackle; il più delle volte porto il piede come il gatto fa col gomitolo: e poi recupero di spinta; cioè salto sulla palla, esco in dribbling dall’area; è un’ebbrezza autentica toccar via di piatto, procedere calmo al palleggio, toccare a un compagno, rilanciare, far gioco”
Proseguendo nel rapporto con Nereo Rocco, a Cesare Maldini dopo il ritiro venne naturale sedersi in panchina.
Fu vice per tre anni e si narra che il triestino stretto dei due risultasse incomprensibile quanto i codici segreti della guerra fredda. Poi separatosi dal paron, Maldini padre girò per qualche anno la provincia ai confini dei grandi stadi finché nel 1980 non incontrerà la nazionale e un altro grande friulano (anche se questo di entroterra) Bearzot, di cui fu vice nell’impresa mondiale.
Cesare proseguì in azzurro come ct di un Under 21 per tre volte europea. Infine, arrivò “per merito” nella nazionale maggiore, esperienza tarpata però dai rigori persi ai mondiali del 1998 contro i padroni di casa francesi, futuri campioni.
Ma torniamo un attimo indietro e andiamo al luglio 1962, ad una foto in bianconero di due sposi a braccetto, Cesare Maldini e la “signorina” Marisa Mazzucchelli, come recita la didascalia. La loro sarà una coppia tranquilla, di quelle che non lasciano spazio alla cronaca rosa e da cui verranno ben sei figli, divisi a metà fra maschi e femmine.
In particolare, nel 1968, l’anno delle rivolte, nasce Paolo.
E’ un bambino molto vivace ma capace di prendere bei voti a scuola. Nella sua vitalità sta simpatico a tutti, pare incarnare l’ideale del figlio perfetto con un optional in più: il talento con il pallone.
A dieci anni, con un nome ingombrante sulle spalle sostiene il provino per il Milan. Suo padre, Cesare, sul campo non c’è.
Narrano che in quei minuti fosse impegnato in nervosi giri attorno all’Idroscalo perché non voleva influenzare con la sua presenza la scelta della società. Ma c’era poco da influenzare, il talento del bambino risultò impressionante.
Nome nobile o no, la classe di Paolo saltava all’occhio.
Nelle giovanili la crescita di Maldini junior fu inarrestabile favorita da un altro friulano di pianura, Fabio Capello che prese il Maldini con accento milanese sotto la sua ala. Poi, più avanti, a sgrezzarlo ulteriormente ci pensò uno svedese freddo e caldo assieme, Liedholm, che abbracciò tutto quel talento e ne fece un fuoriclasse. La prima di Paolo in A, a sedici anni, avvenne dentro una tormenta di neve. Indovinate dove? In Friuli. Per la precisione a Udine. Il ragazzo giocò un secondo tempo convincente ma lo stesso si alzò qualche sussurro sull’aiutino derivante dal nome, sospetto che comunque sparì sotto una valanga di prestazioni sorprendenti.
Tre intercontinentali. Cinque coppe dei campioni. Sette scudetti. Più di novecento presenze nel Milan da sommare alle cento in Nazionale. Una maglia azzurra che per Paolo fu l’avventura agonistica più sfortunata, vissuta in un’epoca calcistica di titoli sfiorati ma mai afferrati (vedi un secondo ed un terzo ai mondiali).
E’ in nazionale che avvenne l’incrocio diretto fra il padre e il figlio quando nel 1986 Cesare lo chiamò all’under 21.
Da lì in poi, Paolo non lascerà più la storia del calcio, tanto che oggi sembra assurdo dover leggere un “pallone d’oro” dove compaiono dei Bjelanov e dei Papin ma nessun Paolo Maldini. Purtroppo quelli ci sono e lui no, ma senza rimpianti, parola di Paolo: “Se da bambino avessi scritto una storia su me stesso, la fiaba più bella che mi potessi inventare l’avrei immaginata come effettivamente è accaduto.”
Peccato che Paolo non l’abbia scritta, quella fiaba. Sarebbe potuta cominciare così: “C’era una volta un campione che si chiamava Cesare. Giocò tanti anni. Poi ebbe un figlio che chiamò Paolo e….”