Marco Pantani. 2 luglio 1998. Si compiva la doppietta Giro Tour, ma la si compiva alla maniera delle leggende, partendo da Plateau de Beille e arrivando a Parigi:
“Mi è sempre piaciuto il ciclismo ma Pantani è stato una delusione troppo grande. Oggi non seguo più le corse.”
E’ frase che senti spesso quando ti trovi a parlare di biciclette, corridori e traguardi.
Accanto ad essa proviamo a mettere un’immagine. Quella del luglio 1998, la vittoria a braccia aperte a Les Deux Alpes di Marco, che venne dopo l’avvisaglia di Plateau e che fu la botta che lo portò a trionfare a Parigi e nel cuore di tanti.
La tappa a Les Deux Alpes, del 27 luglio, era una tappa che respirava la precarietà di un Tour devastato da arresti, interrogatori, ritiri di massa. L’avversario di Pantani era Ullrich, un tedesco che a metà fra vittima e colpevole frequentava il ciclismo chimico dai tempi della Germania Est.
Lui faceva il “pieno” e aggiungendolo alle sue doti naturali poteva macinare a cronometro minuti che nessuno avrebbe potuto colmare in classifica. In quel giorno di freddo assurdo, a Les Deux Alpes, Marco Pantani avrebbe potuto scegliere di non provare a vincere contro quell’autotreno.
Non attaccare a cinquanta chilometri dall’arrivo. Marco Pantani poteva limitarsi a raccogliere quello che aveva già avuto. Stare tranquillo davanti ad una finestra imbandita di sponsor e tifosi. Non l’ha fatto. Ha scelto di andare di là, a varcare un oltre, un limite che non era chimico ma umano. E così, anche vista oggi, le immagini de Les Deux Alpes, di lui nella nebbia a sofrire, di quel Tour, di lui che sorride a Parigi, stridono con le parole idiote tradimento e drogato che a volte si sentono, e stridono con una storia del ciclismo che non può restituire solo numeri, razionalità, verdetti.
No, non può. Fu da quel Tour del 1998, dopo quel 2 agosto timido e sorridente di Marco Pantani, che partirono le crociate più furiose su doping e ciclismo.
D’improvviso, i medici che nei primi anni ottanta erano decantati come geni, diventarono criminali sportivi. Tutto normale, è il solito modo di vezzeggiare e poi flagellare a seconda di dove tira il vento.
Ad esempio riportiamo un articolo de La Stampa del 21 gennaio 1984 dalla Città del Messico fresca del record dell’ora di Moser. La sigla del pezzo è autorevole, quella di un grande scrittore di sport. Se sul doping ha cannato g.p.o possono cannare tutti …
”La prima storia del nuovo ciclismo divertente, appagante, pagante, viene scritta non da un corridore baciato dagli dei ma da uno aiutato dagli uomini (Conconi e la sua equipe)…. Un suo assistente, Michele Ferrari verrà staccato per seguirlo (Moser) nelle prove su strada… Conconi, biochimico ferrarese in odore di Nobel per una scoperta relativa a Emoglobina Biologica, inventore di Damilano, della Fogli, di Magnani, fra gli inventori di Cova… con lui nasce dunque il ciclismo della preparazione scientifica, individuale, specialistica. Requiem per il ciclismo dei lunghi allenamenti che sono poi passeggiate o fatiche inutili… La scienza per poter finalmente pedalare tranquilli, finite le vecchie teorie del riposo, dello stop a fatiche ritenute disumane…”.
Certo, le prime impressioni possono divenire conoscenza e non possiamo dimenticare che fra la pista messicana scientificamente sponsorizzata di Moser e il Tour del 1998 passarono quattordici anni e la decantata “preparazione” può aver cambiato d’abito divenendo il doping maledetto del 1998.
Lo stesso, però, oggi, quanto sembra illuminante quella scrittura che narra di un nuovo ciclismo senza fatica, sofferenza, sacrificio. E accanto all’ossessione per la scienza, il record numerico, mettiamoci anche l’evoluzione dei grandi giri (fra cui il Tour) verso lunghissime e piatte odissee a cronometro, un terreno disegnato esclusivamente per le “scientifiche” macchine umane e spietato invece verso gli eroi del ciclismo andato, gli scalatori, che in una gara di potenza potevano solo perdere, e perdersi.
Per capire meglio le differenze fra doping e grandezza, fra scienza e uomo, il contrasto, mettiamoci un’altra immagine.
Sono passati due anni dal 1998, siamo al Tour del duemila. E’ il 13 luglio, due uomini al comando. Uno in maglia rosa, Pantani. L’altro in maglia gialla, Armstrong. Stanno appaiati sulle rampe del Ventoux. La differenza evidente è che uno, l’italiano, scalatore fuoriclasse, fa fatica. L’altro, l’americano, apparentemente no. Uno ti emoziona, l’altro, no. Vincerà Pantani. Armstrong dichiarerà d’averlo lasciato vincere, il che umilierà il romagnolo che qualche giorno dopo a Courchevel coglierà la sua ultima vittoria. La storia di Pantani atleta finiva lì, cominciava la tragedia di uomo ma questa è questione di cuore e nell’editoria di oggi non conta. Nel 2000 andava cominciando la storia di Armstrong, sette Tour e l’immagine di un super-eroe capace di uscire da una malattia atroce e tornare a vincere nei venti giorni più importanti del ciclismo, quelli francesi. Le accuse postume di doping, con analisi e testimoni, sono arrivate solo dopo. Quando l’americano non aveva più nulla da dire, e da far guadagnare.
Però, le cose vanno viste sempre dall’alto. E allora se pensi adesso dove stanno i due, e dove staranno domani, forse ti rendi conto che c’è una giustizia che conta più delle altre, ed è il tempo.
Marco Pantani è una leggenda che vive nella folla, in ogni corridore, sull’asfalto di ogni salita. Più passa il tempo, più lui vive.
Armstrong, quei Tour, quel decennio mercantile, sono estinti.
Sì, leggenda e doping sono due mondi opposti. Che non si possono toccare. Una, vince sull’altro. In fondo lo insegna la storia del ciclismo, che vale ben di più di qualsiasi parola.