Prima la chiusura delle scuole. Poi le immagini di medici e infermieri che si addormentano esausti sul primo ripiano disponibile, ancora con le mascherine legate saldamente al viso e i camici protettivi, fin troppo stremati per pensarci, ma solo per chiudere gli occhi un attimo, un frangente di secondo. I telegiornali e i social network si sono riempiti, giorno dopo giorno, delle testimonianze di medici che rivelano la situazione sempre più insostenibile negli ospedali, avvertendo per tempo della minaccia di un collasso della sanità nazionale. Lacrime e commozione ovunque, negli occhi di quei guerrieri in prima linea che dicono di vedere cose che non potrebbero suscitare altro che il pianto e la demoralizzazione.
E poi è arrivata la chiusura forzata di tutti i negozi, delle attività commerciali non necessarie. L’imperativo a rimanere in casa per tutto il periodo necessario, ovvero finchè questa pandemia non si sarà risolta o, per lo meno, contenuta.
Questo esserino piccolissimo e invisibile, che entra silenzioso nel nostro corpo ma che lo devasta rumorosamente con tutta la forza che è in sé, ci sta veramente prosciugando.
Sta prosciugando la nostra anima, prima ancora di intaccare il nostro corpo.
Questo tanto citato e ormai noto a tutti Coronavirus o Covid-19 ci sta fermando, non solo fisicamente (per quanto sia appurato e conclamato), ma anche mentalmente e psicologicamente. Un minuscolo virus è capace di scatenare in noi le riflessioni più profonde, più reali e purtroppo più dolorose.
Il Coronavirus è diventato, ahimè, il protagonista dei nostri pensieri.
E chi l’avrebbe mai detto che quella cosa che soltanto pochi mesi fa era stata etichettata, quasi sicuramente per preservare la nostra serenità mentale e allentare la morsa del panico, come una sciagura tipicamente e solamente cinese, sia oggi la protagonista della nostra vita, delle nostre giornate e della nostra Brianza e Italia tutta.
E quando qualcosa che pensavi e speravi non ti avrebbe mai toccato, ti raggiunge invece inesorabilmente e, permettetemi, anche ferocemente, che cosa resta?
Restano le saracinesche abbassate dei negozi, le strade deserte e silenziose, di quel silenzio pesante e insopportabile, fastidioso più di qualsiasi altro rumore. Restano i volti di quei pochi passanti che si incrociano, con la bocca e il naso coperti e custoditi dalle mascherine. Restano le corse disperate e isteriche ai supermercati di chi non riesce più a contenere il panico e a distinguere ciò per cui è giusto preoccuparsi e ciò per cui, invece, possiamo ancora tirare un sospiro di sollievo.
Restano gli occhi spaventati e spalancati delle persone davanti alla televisione, davanti ai dati inquietanti che ci sottolineano in rosso il numero dei morti per contagio.
Cosa fare quando tutto il mondo intorno a noi sembra essersi letteralmente spento e fermato, a eccezione, purtroppo, delle ambulanze che sfrecciano con la sirena a tutto volume e delle corsie degli ospedali. Quelli sì, che sono i luoghi che vorremmo sempre vedere poco affollati. E invece eccoci qui, con le nostre strade vuote e i letti dei nostri ospedali stracolmi.
Cosa pensare quando la paura e il rischio è ovunque, quando si ha paura nel percorrere il quotidiano tragitto che ci conduce sul luogo di lavoro. Quando non possiamo stringere tra le braccia le persone che amiamo perchè mantenere le distanze è l’unica protezione per noi e per loro.
Con cosa riempire i nostri sensi se non ci sono più le risate dei bambini, il rumore dei loro passi concitati e affamati di scoperta. Come ricucire un cuore che palpita di paura e di terrore, come asciugare gli occhi di chi ha pianto e visto troppo dolore in così pochi giorni.
Il nostro corpo e la nostra anima urlano alla guarigione e supplicano per una cura.
E ora che ci ritroviamo tutti uniti nella paura e nella tristezza e vicini nella distanza che ci separa, ora che ci sentiamo tutti insieme stando ognuno in casa propria, ora che ci costringiamo a vivere una normalità anomala, in un paese e in un’atmosfera che non sappiamo riconoscere, nonostante gli sforzi, ora ci crogioliamo in continue emozioni contrastanti.
Speranza, disperata speranza, paura e panico, disperazione e angoscia, voglia irrefrenabile di farcela, di andare avanti, spirito di sopravvivenza, di solidarietà. Siamo equilibristi sul sottilissimo filo della vita, nell’occhio del ciclone, alla disperata ricerca di quell’equilibrio che ci faccia restare in piedi e, perchè no, procedere avanti, sempre più avanti.
Quando queste sere chiudiamo gli occhi colmi di preoccupazione e di pensieri ai quali non sappiamo neppure dare un nome, ci svegliamo immaginando e sperando che tutto sia stato solo un terribile incubo. Ma il silenzio assordante fuori dalla finestra ci riporta bruscamente alla realtà, una realtà che ancora resta dolorosa.
Ma poi gli uccellini cantano, e ricordiamo di averne udito il canto anche la mattina prima e quella prima ancora. E arriverà, prima o poi, una mattina serena e felice in cui gli uccellini canteranno ancora e, finalmente, noi con loro.
Francesca Motta