Sport e Valore.
“L’altra domenica una rissa sulle tribune è accaduta a Varedo, prima ancora un episodio simile a Nova Milanese e questi sono solo gli ultimi due incidenti di una lunga serie. A parlare, è l’assessore allo sport di Regione Lombardia, Martina Cambiaghi, di episodi assurdi, nati in Brianza.
La cosa drammatica è che parla di partite giovanili, e di genitori che erano lì per vedere i loro figli…
Qualcuno si illudeva che lo sport è un mondo a parte? No, lo sport non è avulso dalla società. Veste le sue meraviglie, e le sue ignoranze. E proprio come ogni angolo di questa società, ora avrebbe bisogno di ridarsi una memoria, per ricostruire il proprio enorme valore. Di darsi eventi in cui vincere è pari al perdere. Come le Olimpiadi degli Oratori, l’importante è divertirsi. Perché lo sport è sempre vissuto di valore.
Berlino 1936.
Ovvero, la storia di una dittatura criminale intrecciata alle gesta di due uomini che si sfidavano nel salto in lungo: Jessie Owen e Luz Long.
Lo sport, già allora, era una prospettiva diversa da cui guardare il mondo. E lo fu anche per il regime nazista, che aveva intuito la potenzialità mediatica e propagandistica dell’agonismo costruendo le prime olimpiadi “multimediali” e tralasciando, purtroppo per un solo tratto di storia, quella visione della contaminazione che gli bruciava l’anima.
Convenienza propagandistica?
Difficile pensare che un regime che proprio in quei giorni stava facendo dello sterminio una pratica industriale, con piano d’impresa, capitale e scopo, si piegasse ad una convenienza.
Anche nella Berlino del ’36, lo sport veniva considerato dimensione a parte, e se ne raccolse l’aspetto propagandistico, trascurando il fatto che potesse mostrare proprio quei valori che si volevano contrastare.
La gara del salto in lungo della XI Olimpiade sta lì, scolpita nella colonna traiana dello sport a dimostrazione di un agonismo che non divide, ma lega.
Le propagande dei due blocchi avevano montato quel duello come un’ordalia fra i valori del nazismo e quelli della democrazia.
Sport e Valore. I campioni di quella sfida erano due.
Uno Jessie Owen, nero, americano. Un fisico esile ma straordinariamente votato alla velocità, oro nei cento, duecento e staffetta.
L’altro Luz Long, alto, biondo, potente, designato dal regime, suo malgrado, “campione ariano”.
Uno scontro vissuto crudamente dai mass media ma non da loro due, da anni abituati a togliersi la stessa sabbia dalle scarpe e a versare le medesime gocce di fatica sulle pedane.
La qualificazione alla finale, allora, era fatta a occhio.
I giudici cioè non misuravano, dicevano solo se il limite era stato passato, oppure no.
Le prime due prove di qualificazione di Jessie furono catastrofiche. Fra mille proteste, vennero dichiarate nulle, ponendo Owens davanti al terzo salto, il più importante della sua vita.
Per di più, in contemporanea all’ultima qualifica (casualmente?) stava per partire la batteria dei 200, distrazione che sarebbe potuta costare cara.
Nella storia ci sono carezze che ancora risuonano. Più di tanti, inutili schiaffi. Carezze. Come la corsa del gigantesco campione biondo.
Luz davanti agli sguardi stupiti dell’Olimpico Berlinese, arrivò accanto all’avversario, e gli suggerì di accorciare la rincorsa, per non essere disturbato dalla gara che poteva tormentargli la concentrazione. E poi, in un mezzo inglese… “Jessie, stacca molto lontano dalla linea, perchè i giudici oggi sono strani”.
Sport e Valore. Un grande episodio quel dialogo. Cancellato, però, dalla agiografia ufficiale di quei giochi, perché i mass media scelsero un’altra immagine: la presunta fuga di Hitler davanti alla vittoria di un nero.
In realtà quella fuga non ci fu. E fu lo stesso Owen a raccontarlo.
Nella scenografia dell’olimpico berlinese, l’esultanza di Jessie era un irrefrenabile ritmo blues. Un risuonare di vitalità che molto contrastava con lo statuario tempo wagneriano architettonicamente concepito da Speer.
Eppure Hitler stette lì per buona parte di quel trionfo e prima di allontanarsi incrociò lo sguardo del vincitore alzando la mano in un cenno di saluto e di complimento.
Ma quel “gesto” rimase inciso solo nella memoria del vincitore.
Chissà perché.
In fondo, non serviva raccontare una realtà adulterata per dipingere la criminalità del Fuhrer nazista, sarebbe bastato riincontrare gli anni amari che furono il futuro di Luz Long.
A Hitler, al di là del riconoscimento pubblico, l’amicizia del suo atleta per il nero americano non andò giù.
Scoppiata la guerra, come un gesto di lealtà avesse bisogno di redenzione, a Luz venne tolta la franchigia che copriva gli atleti tedeschi dall’impiego nell’esercito.
Fu arruolato nei corpi d’elite, quelli che fanaticamente misuravano la fedeltà al regime, morendo.
L’ultima lettera che Jessie ricevette dall’amico era piena di raccomandazioni per la famiglia. Long ormai intuiva la sua morte e la sconfitta del nazismo da parte della democrazia, proprio come in quel giorno del 1936, a Berlino.
Pochi giorni dopo quell’addio d’inchiostro, il soldato semplice Luz Long cadde in Italia, colpito dai connazionali del suo grande amico, Jessie Owens.
Luz Long. Eroe di lealtà. Una bella storia, da raccontare.
Sport e Valore. Ritrovarli è anche fare memoria dello sport. Perché è scoprire che sa essere valore. restituire valore. Insegnare valore. Tutto quello che non è esistito in tante tribune, popolate da genitori improbabili, abituati ad un concetto di calcio altrettanto improbabile…
CC