George Gershwin, dopo aver colto pochi giorni prima un tiepido successo a Boston, mette in scena all’ Alvin Theatre di New York la sua opera lirica Porgy and Bess anche qui non raccogliendo grandi consensi.
L’America non aveva capito che quella lirica del tutto innovativa era il segno tangibile che la sua supremazia ora aveva toccato anche una voce della cultura ufficiale e più conservatrice come la lirica.
Rta stato un lungo cammino, quello di Gershwin, iniziato il 12 febbraio 1924, quando il suo concerto per pianoforte ed orchestra, la Rapsodia, debuttò ed entusiasmò New York, ma non la strabiliò.
Quelle melodie erano una sublimazione ma nulla di rivoluzionario o di diverso da quello che Broadway, già da tempo, aveva sotto gli occhi.
Poi, quelle note “giovani” ripercorsero il sentiero delle migliaia di “yankees” sbarcati in Europa a cambiare l’inerzia di una guerra mondiale.
E quei suoni dell’Eolian Hall piombarono violenti sul “vecchio” continente, lacerando il cuore di una cultura esausta.
La “Rapsodia in Blue” parve subito una svolta culturale, una rivoluzione che riempiva con “suoni” nuovi, orizzonti di stanchezza. Già. il nuovo. Quel clarinetto improvviso che si impone netto, preciso, e disegna il silenzio di un timbro così diverso dai precedenti.
E poi, nuova, è anche la roba che gli viene dietro. L’incedere turbolento dell’orchestra, mischio di umori vincenti e positivi quanto l’America lo è di razze. Perché la rapsodia sbarcata dai trasatlantici sull’Europa di Weimar, si portava addosso il fiato, il sudore, il dramma, la potenza e la forza di un popolo intero.
Il lamento dei campi di cotone, l’alito incandescente dell’industria e le luci sfarzose di Broadway, un miscuglio di sensazioni ed odori unici, un urlo di abbagliante novità. Note orchestrali, ma anche emblemi di un genio colonizzatore, verso elettrico di un dominio culturale ed economico che andava manifestandosi su un continente stanco e in penombra, un albergo malinconico di splendori in disuso, in cui lo sfarzo era solo abbandono d’una prospettiva futura.
Il 1928 racconta di un George Gershwin, ricco ma intimidito, sbarcato a Parigi. Voleva imparare, dove gli sembrava si dovesse imparare. Uscì deluso dall’incontro con Ravel: “George, io non ho nulla da insegnarle. Lei diventerebbe un Ravel di seconda mano mentre, voi, siete già un Gershwin di prim’ordine.” Parole che testimoniavano allo statunitense (la cui musica incarnava il sapore che dava l“America” ad ogni un immigrato) che le sue note non erano provincia, e neanche repertorio ma un “nuovo” che inesorabile si imponeva. In pratica George a Parigi si trovò a marciare con lo stesso passo impacciato ma deciso delle armate statunitensi che nel 1917 aggirandosi nelle retrovie in estenuanti esercitazioni, avevano deciso con un peso industriale (più che militare) il destino di una guerra in stallo.
Quei mesi del 1928 per George Gershwin furono la scoperta di una cultura dimessa, e chissà nelle lunghe passeggiate per le strade della “Ville Lumiere”. L’opera che debuttò anni dopo fu l’urlo che sancì la nuova supremazia. Tornò nell’america che stava cambiando, travolta da una crisi e da un’ondata di nuovo.
Summertime fu il nessun dorma del nuovo novecento. Il resto divento classicò, e si inchinò davanti all’avanguardia del genio americano che scomparirà appena due anni dopo, ma il mondo, dopo di lui, non fu più lo stesso.