Whitney Houston: avesse avuto un’altra voce, probabilmente questo agosto (il 9) avrebbe festeggiato il suo cinquantacinquiesimo compleanno in una tranquilla casa borghese. O forse no, perchè erano tanti i fantasmi che quella donna fragile si portava addosso, e probabilmente, in qualsiasi mondo, ci avrebbe combattuto. Vincendo o perdendo, non si sa.
Whitney Houston nasce nella musica. Dionne Warwick era sua cugina. Sua madre è cantante, passata come corista da Elvis ad Aretha Franklin. Carattere duro, un rapporto complicato ma vero, imporrà alla figlia l’educazione che serve per sopravvivere nel mondo notturno che vivono, ma sarà troppo severa, viste le problematiche che Whitney incontrerà fin dai primi anni.
Whitney vivrà una infanzia passata nei night e dentro una musica pop e jazz ad alto livello. Un talento fin da subito, ma la madre non permetterà che firmi contratti finchè non finisce la scuola.
Dopo i 15 anni, la carriera di Whitney, cantante e modella, esplode.
Diventa l’icona commerciale e musicale che, dopo gli anni settanta, era mancata. Incarnerà con la bellezza, la voce, il sorriso quella pulizia apparente che il mercato dscografico anni ottanta richiedeva.
Cantante, attrice. Un bene commerciale ed artistico.
Mentre il business attorno a lei viaggiava a livello di record e i fans crescevano, in pochi sapevano che la sua vita stava viaggiando verso l’inferno.
Oltre 200 milioni di copie vendute, 6 Grammy Awards, 2 Emmy Awards, 31 Billboard Music Awards, 22 American Music Awards, per il Guinnes Whitney Houston è la cantante più premiata di sempre.
Ma mentre lo score saliva, la vita precipitava.
Una bambina e una ragazza sensibile, il disequilibrio provocato dagli abusi subiti da bambina da sua zia, Dee Dee.
Probabimente Whitney era omosessuale, una tendenza corretta severamente, anno dopo anno, incontro dopo incontro, dalla famiglia e dal mondo inflessibile che stava attorno al suo successo e alla sua immagine.
Troppe contraddizioni. Un contrasto fra essere e sentimenti che l’hanno portata verso il mondo tumultuoso e autodistrittutivo del marito Bobby Brown, la droga, la malattia.
“Non sono andata da Bobby. Mi hanno portata.”
Se i geni e le icone degli anni 70 morivano di overdose nelle stanze degli alberghi, quelle degli anni ottanta e novanta muoiono a Beverly Hills, addormentandosi di droga in una vasca da bagno. Rimane una costante. Sono sole. Dominate da ansie e emozioni, e sentimenti, incontrollabili.
E, altra costante, diventano miti. Leggende.
E’ la legge dell’arte, del mondo dello spettacolo globalizzato. Della cultura globalizzata.
Già, cultura. Perchè il filmato di “I will always love you” sarà appeso nelle pinacoteche del nuovo millennio, come testimonianza culturale dei decenni che stiamo attraversando.
Arte? Sì, arte.
Figlia di una artista dalla sensibilità troppo grande per vivere…
cc